L’epidemia è una ferita alla radice

Di Valentina Vascellari – 30.aprile.20

Tante cose sono state dette in questi tempi e più volte mi sono chiesta come utilizzare questo vissuto. In più di un momento ho sentito il peso dell’ombra sopraffatta dalla paura e mi ci sono identificata. Con fiducia sono scesa alla Sorgente, al silenzio del sé, ho affidato alla corrente i miei attaccamenti e mi sono svuotata. Ho lasciato fluire la mia storia personale. E mentre le maschere e le loro identificazioni seguivano la corrente, ho accolto il principio di trasformazione che osserva  e accetta che là dove c’è il caos si trova l’ordine, là dove c’è la malattia c’è anche la cura, là dove c’è l’irrequietezza c’è la pace. Così, gradualmente, mentre mi rioriento, torno e ricordo che il cammino che percorro ha accettato l’esperienza come via per raggiungere la consapevolezza dell’anima.

Lascio, allora, che il flusso delle idee accolga il senso ed il significato profondo che porta il campo dell’epidemia. Per campo  intendo lo spazio temporale che coinvolge il gruppo nell’esperienza e faccio riferimento al modello morfogenetico di Rupert Shaldrake, secondo il quale i campi morfici sono costituiti dalle forze energetiche rilasciate da un sistema, forze responsabili dell’organizzazione, della struttura e della forma del sistema stesso. Queste forze porterebbero in sé un sistema di memorie d’influenza all’interno dello spazio-tempo.

Έπί-δημία, dal greco, ‘che è nel popolo’. Dall’etimologia cogliamo il senso di qualcosa che non si vede, ma che è dentro. Potremo dire che la malattia epidemica è uno stare male nel popolo. Un virus in modo fantasmatico, muove il male, dilaga, passa dall’uno all’altro all’interno della tribù. La fa stare male. Fa stare male non solo il direttamente contagiato, ma anche il portatore sano untore ( che potrebbe essere chiunque!), i parenti, gli esposti, quelli che restano a casa, quelli che curano, quelli che perdono il posto di lavoro, quelli che sono piccoli e non incontrano i compagni, quelli che sono più vulnerabili, quelli che non ci credono.

La tribù è l’archetipo dell’identità corale, della forza di gruppo, di una volontà condivisa, di schemi mentali: la radice della nostra storia personale!

La malattia della tribù è connessa al primo chakra secondo la visione energetica orientale, il chakra della radice. L’integrazione con il punto di vista energetico ci permette di fare un ponte tra ciò che  accade al corpo fisico e mentale ed il vissuto esistenziale.

Al primo chakra è attribuito il sostegno del corpo fisico, è correlato al sacro della colonna vertebrale ed al sistema immunitario (midollo osseo). Dal punto di vista emotivo-mentale : ai legami di attaccamento, alla famiglia biologica ed ai vincoli al clan, intesi, inizialmente, come risorse nel  provvedere alle necessità della vita, successivamente al mantenimento di un modus operandi legato all’identità di appartenenza al gruppo: nazionalità, scelte politiche o culturali, squadra di calcio, inno nazionale, codici familiari. Implica l’identità del NOI!

L’individualità e la volontà cosciente si sviluppano in aree evolutive più avanzate. Nelle prime fasi d’esistenza tutto è uno. L’appartenenza è un bisogno primario quando iniziamo la nostra vita: nella famiglia prima, nella tribù poi. Il noi risponde all’esigenza di ordine e struttura e ci permette di orientarci nel tempo e nello spazio attraverso i cinque sensi che aprono la nostra esperienza sul mondo. Di conseguenza lo sguardo sul mondo sarà condizionato, in prima istanza, dalle apparenze e solo in una fase successiva si imparerà ad estrapolare il senso simbolico degli eventi e delle relazioni. Ne deriva che le paure primarie che si muovono a questo livello hanno a che fare con la sopravvivenza fisica, l’abbandono del gruppo e la perdita degli attaccamenti. La malattia della tribù è l’epidemia e smuove questi livelli di paura profonda.

Nel momento della diffusione dell’epidemia  e dell’emergenza sanitaria ognuno si trova esattamente dove deve essere nei termini dello spazio e del tempo in cui sarà apparecchiato, in modo collettivo, un processo di gruppo che dà ad ogni singolo la possibilità di trascendere i limiti incistati dei condizionamenti tribali.

Jung C.G.  diceva che la mente collettiva è la forma più bassa di coscienza.

Le opinioni tribali che ereditiamo, sotto forma di condizionamenti, sono una combinazione di verità e mistificazioni. Il processo di crescita esistenziale ci sfida a conservare le influenze tribali positive e scartare quelle che non lo sono. Un’emozione forte, come la paura durante l’epidemia, smuove un terremoto interiore che innesca a cascata infiniti  processi evolutivi, di blocco o involutivi.

La paura scompensata attiva il sistema rettiliano e limbico con manifestazioni paranoidee, aggressive, di isolamento, di organizzazione del proprio rifugio, di negazione. La riduzione della capacità/libertà di valutare  l’entità del pericolo aumenta la cortisolemia e, quindi, in seguito allo stress, si abbassano le difese immunitarie. Ci si allontana dal gruppo dei pari, il vicino deve tenere la giusta distanza, le scorte alimentari devono essere assicurate, si cerca la via di fuga verso un posto sicuro.

I valori di lealtà, onore e giustizia, validi atteggiamenti morali che sostengono il buon funzionamento personale  e di gruppo alla radice, possono diventare restrittivi o dannosi quando interpretati rigidamente.

La lealtà, in quanto legge non codificata, può essere più potente dell’amore sano (assembramenti per funerali, saluti senza protezioni davanti a capi clan, etc). Il codice d’onore di stampo tribale è una combinazione di tradizioni e di rituali che può essere rigidamente interpretato e messo alle strette nei casi di necessità di adattamento all’emergenza (presa di potere di gruppi dedicati al controllo, focalizzazione degli eroi o delle vittime). La giustizia porta l’ordine di non causare vergogna alla famiglia ed esercita un potere deterrente su ogni singolo membro (perdita del senso condiviso e necessità di demarcarsi rispetto al gruppo o alle linee di confine). La malattia della radice stringe ulteriormente la libertà individuale alle aspettative, alle necessità ed alle restrizioni che servono alla tribù e questo  sacrifica il singolo al bene comune esercitando una pressione psicologica che strozza i significati personali al limite dell’adattamento, inteso come risorsa principale della sopravvivenza del genere umano: sia in termini genetici che comportamentali.

La tradizione afro-brasiliana si richiama al principio della cura: Omolù. Il mito lo racconta come portatore dell’epidemia e guaritore allo stesso tempo. Figlio della madre Terra e rifiutato da essa per l’orrore provato rispetto le piaghe del vaiolo che lacerano la sua pelle. La madre Terra che genera il figlio che la può ammalare ed anche curare. Solitario, copre il corpo sanato  con vesti di paglia per proteggere la memoria della sofferenza fisica. Quelle vesti che lo rendono invisibile al mondo gli permettono di guardare dentro per portare la cura alla radice della piaga.

Porta il principio di guarigione inteso come: malattia, morte e rinascita. Non a caso è sincretizzato con San Lazzaro, malato e morto di lebbra e, successivamente, risorto alla morte guarito.

Se riconosco nella malattia la causa profonda che la genera, posso morire alla malattia e accettare la guarigione. La malattia diventa così artefice della trasformazione profonda del Sè. L’evoluzione e l’esistenza possono così entrare in un processo di guarigione incessante che include e trascende il dualismo salute/malattia attraverso la cura e che porta l’esperienza interiore dalla conoscenza alla consapevolezza.